
Commento di Don Orazio Tornabene
La terza domenica di Pasqua, il Vangelo ci offre una delle più belle e tenere manifestazioni del Risorto. Siamo sulle rive del lago di Tiberìade, il luogo familiare della vita quotidiana dei discepoli. È lì, nella fatica e nel fallimento – “quella notte non presero nulla” – che Gesù si fa presente. Non entra nella scena con potenza o miracoli clamorosi, ma con discrezione, accendendo un fuoco, preparando del pane e del pesce.
È la terza volta che si manifesta ai suoi dopo la risurrezione, ed è ancora Lui a prendere l’iniziativa. Li chiama a fidarsi, come aveva fatto all’inizio, quando disse a Pietro: “Prendi il largo”. Ora li invita di nuovo a gettare la rete, questa volta “dalla parte destra”. E quella rete si riempie: 153 grossi pesci, segno dell’abbondanza che scaturisce dall’obbedienza fiduciosa alla sua parola.
E lì avviene il riconoscimento: è Giovanni, il discepolo amato, a dire con stupore: “È il Signore!” E Pietro, che non aspetta un momento, si getta in mare per raggiungerlo. Questo gesto è bellissimo: è l’impeto dell’amore che non può restare sulla barca quando sa che il Signore è lì, sulla riva.
La risurrezione, fratelli, non è un ricordo da custodire nel cuore. È una presenza viva da riconoscere ogni giorno, nelle nostre fatiche, nella nostra missione, nelle nostre relazioni. La pesca abbondante ci parla proprio della missione della Chiesa: siamo chiamati ad essere pescatori di uomini, testimoni di un amore che salva.
E poi c’è quel dialogo tra Gesù e Pietro, così carico di dolcezza e verità. “Mi ami?” – gli chiede tre volte. È come se Gesù ricucisse con delicatezza la ferita del rinnegamento. Pietro non viene umiliato, ma guarito. Il perdono diventa chiamata, l’amore ridona fiducia. “Pasci le mie pecore” – gli dice. È questo il fondamento di ogni servizio nella Chiesa: l’amore per Cristo. Non l’efficienza, non il ruolo, ma l’amore.
C’è anche un dettaglio interessante nel Vangelo: tra i discepoli c’è Tommaso.
Quel Tommaso che aveva dubitato, che aveva chiesto di toccare per credere. Ora è lì, parte della comunità. La sua presenza ci ricorda che la fede pasquale ha bisogno di un incontro personale, ma anche che il dubbio, quando è onesto, può diventare via alla comunione.
L’incontro con il Risorto cambia la vita. Lo vediamo anche nella prima lettura: gli apostoli non temono più nulla. Non si scoraggiano di fronte al sinedrio, anzi, gioiscono di poter soffrire per il nome di Gesù. È il segno di una Chiesa risorta, che non si piega, che non si adegua, ma che resta fedele, anche quando costa.
Anche oggi il Signore ci viene incontro. Non sulle rive del lago, ma nei luoghi della nostra vita ordinaria. Ci viene incontro nella Parola, nell’Eucaristia, nei volti dei fratelli. Ci chiede: “Mi ami?” E a chi risponde di sì, affida una missione: “Pasci le mie pecore”. Anche a noi, come a Pietro, viene detto: “Seguimi!”
Riconosciamo, allora, la sua presenza. Lasciamoci guarire dal suo amore. E andiamo, con coraggio, ad annunciare che Cristo è vivo. Che l’Agnello immolato è degno di ricevere gloria e onore. Amen.